Evento-oralità-scrittura. È lo schema in tre tappe che il Magistero ecclesiale propone come spiegazione del processo genetico dei Vangeli, interpretando in tal senso il prologo del Vangelo di Luca. Uno schema condiviso dalla maggioranza degli studi, che, inoltre, ritengono in gran parte i racconti evangelici essere stati scritti attingendo al Vangelo di Marco e a una fonte “Q” – mai rinvenuta nei manoscritti, ma di cui è stata tuttavia pubblicata un’edizione critica –, creando testi composti in diverse aree geografiche (Antiochia, Roma, Grecia/Siria, Efeso rispettivamente per Matteo, Marco, Luca e Giovanni) e destinati, in origine, alle comunità che le abitavano. Ma un’attenta lettura del prologo di Luca può avvalorare l’ipotesi dell’esistenza di un antico testo fondatore – il Vangelo degli Ebrei o degli Apostoli – citato dai Padri come testo autorevolissimo, e che Marcione avrebbe usato ed emendato, nell’operazione condannata da Tertulliano e Ireneo come eretica, della scrittura di un nuovo unico vangelo. L’antico vangelo delle origini sarebbe stato steso a Gerusalemme già in contemporanea alla prima attività di predicazione orale, e a esso la scuola scribale della comunità gerosolimitana avrebbe attinto per dare forma a racconti destinati alle classi sacerdotali (Luca), alla missione ad gentes (Matteo), alla formazione battesimale dei catecumeni (Marco) e all’educazione dei missionari (Giovanni). Testi anticamente anonimi, per scelta redazionale esplicita volta a innalzarne l’ispirazione divina, e attribuiti nel II secolo a nomi di illustri campioni della fede per sancirne l’autorevolezza autoriale. La nuova ipotesi muta la collocazione spazio-temporale e l’autorialità dei testi del Nuovo Testamento, aprendo prospettive inedite di comprensione della loro origine.